Le “ipotesi di probabilità comportamentale” non sono sufficienti a giustificare l’accertamento di un maggior reddito di partecipazione nei confronti di un socio di una società di capitali a ristretta base partecipativa.

La fattispecie.

In sede processuale spetta all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare i fatti a fondamento della pretesa impositiva, così come previsto dal nuovo comma 5-bis dell’articolo 7 del D. Lgs. n. 546/92, introdotto dalla Legge 31 agosto 2022, n. 130, recante “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”.

È sulla base di questa nuova regola processuale che la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Reggio Emilia (Sez. I), con sentenza depositata in data 24 aprile 2023, n. 72, accogliendo il ricorso presentato da un contribuente, ha annullato un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate per asseriti maggiori redditi da partecipazione societaria.

La vicenda sottoposta all’esame dei giudici emiliani scaturiva dalla notifica di un avviso di accertamento ad un contribuente, socio per il 99% di una S.r.l. nei cui confronti era stato preventivamente accertato un maggior reddito d’impresa conseguente al recupero a tassazione di costi ritenuti fiscalmente indeducibili. Attesa la rettifica in aumento del reddito della società a ristretta base partecipativa, l’Agenzia fiscale aveva, quindi, accertato per il medesimo periodo d’imposta, anche nei confronti del socio, un maggior reddito imponibile in misura proporzionale alle quote di capitale da questi possedute.

Nella motivazione dell’avviso di accertamento, l’Agenzia delle Entrate aveva richiamato un consolidato orientamento della Corte di Cassazione secondo cui nell’ambito delle società di capitali “pur non sussistendo a differenza delle società di persone la presunzione legale di distribuzione di utili ai soci, vige una presunzione semplice di distribuzione degli utili extracontabili ai consociati tenuto conto della complicità che normalmente avvince i membri della ristretta compagine sociale. È infatti generalmente ammesso che l’appartenenza della società ad una ristretta cerchia di soci possa costituire sul piano degli indizi la prova dell’avvenuta distribuzione. Ne consegue che, ove vengano accertati a carico di una società di capitali a ristretta compagine sociale utili non contabilizzati o deduzione di costi per operazioni oggettivamente inesistenti, si presumono salvo la prova contraria che detti utili extracontabili siano stati distribuiti/ripartiti tra i soci in proporzione alla quota di partecipazione di ciascuno”.

Trattasi di un principio più volte confermato dalla Suprema Corte, giacché “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società a ristretta base sociale, è legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati, viceversa, accantonati dalla società ovvero da essa reinvestiti” (si veda Cass. n. 32959/2018 e n. 19442/2021).

L’avviso di accertamento, così motivato, veniva impugnato dal contribuente innanzi alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Reggio Emilia, evidenziando che l’Agenzia delle Entrate non avesse compiutamente dimostrato l’esistenza e le modalità di distribuzione al socio dei maggiori utili societari, anche in ragione della circostanza che la rettifica societaria si era basata sul disconoscimento di alcuni costi e non, invece, sulla contestazione di maggiori ricavi occulti in virtù dei quali presumere, più ragionevolmente, la successiva distribuzione ai soci.

L’Agenzia delle Entrate resisteva in giudizio, richiamando sostanzialmente il contenuto delle motivazioni dell’atto amministrativo e concludendo per il rigetto del ricorso.

All’esito dell’udienza di trattazione, la Corte di Giustizia tributaria di primo grado di Reggio Emilia, con la sentenza qui in commento, ha ritenuto che, ai fini dell’accertamento di un maggior reddito in capo al socio, non vi sia alcuna differenza tra rettifica del reddito societario scaturente dalla contestazione di maggiori ricavi ovvero dal disconoscimento di taluni costi, implicando essi comunque la determinazione di un maggior reddito imponibile che estende i propri effetti anche ai soci.

Ciononostante, i Giudici hanno annullato l’avviso di accertamento emesso nei confronti del socio per un’altra ragione, ritenendo, in particolare, che l’Agenzia fiscale avesse omesso di provare in giudizio taluni fatti a fondamento della pretesa tributaria, quali le modalità utilizzate dalla società per reperire la provvista finanziaria “in nero” da distribuire ai soci; il tutto in violazione della nuova regola processuale in tema di riparto dell’onere probatorio.

Il superamento della presunzione di distribuzione degli utili nelle società a ristretta base partecipativa mediante l’applicazione della norma in tema di riparto dell’onere della prova nel processo tributario.

Nella sentenza che si annota, i Giudici tributari hanno applicato la nuova previsione normativa, contenuta nell’art. 7, comma 5-bis, del D. Lgs n. 546/1992, che impone per la prima volta sull’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare le ragioni della pretesa tributaria.

Prima della modifica operata con la L. n. 130/2022, invero, il diritto tributario era privo di una disposizione concernente il riparto dell’onere probatorio in ambito processuale. Difatti, veniva ritenuto applicabile l’articolo 2697 c.c., secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Inoltre, stante la natura dell’Amministrazione finanziaria quale organo del pubblico potere e, dunque, portatore di un interesse generale, era riconosciuta la presunzione di legittimità dell’atto amministrativo che, di fatto, trasferiva sempre sul contribuente l’onere di provare in giudizio i fatti posti a fondamento delle proprie ragioni.

Ciò precisato, nel caso di specie, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Reggio Emilia, pur riconoscendo una “logica sociale ed economica” nella presunzione in base alla quale in una Società costituita da un numero esiguo di soci vi sia una concreta probabilità di distribuzione del maggior utile realizzato in evasione dall’impresa, ha, però, ritenuto che l’amplissimo e “generalizzato” uso di detta presunzione da parte dell’Agenzia fiscale abbia modificato l’efficacia probatoria della stessa, tramutandola, di fatto, da presunzione semplice in presunzione legale.

In effetti, l’assunto della giurisprudenza di legittimità ha consentito per molto tempo agli Uffici dell’Amministrazione finanziaria di attuare un semplice automatismo induttivo in ragione del quale la rettifica del reddito societario sarebbe condizione sufficiente per accertare anche nei confronti del socio una maggiore partecipazione agli utili, proporzionale alle quote possedute, senza null’altro dover provare. Ciò in quanto la mera appartenenza ad una compagine societaria a ristretta base partecipativa dovrebbe “costituire sul piano degli indizi la prova dell’avvenuta distribuzione” al socio dei maggiori utili occulti societari.

L’effetto di tale trasformazione, nell’ottica dei giudici emiliani, avrebbe all’evidenza comportato un’inversione dell’onere probatorio, ponendolo di fatto interamente a carico del contribuente ed esentando l’Agenzia fiscale dal supportare la pretesa mediante elementi dotati “di gravità precisione e concordanza” che qualificano sempre le presunzioni semplici.

La Corte ha, quindi, ritenuto di non voler condividere l’orientamento giurisprudenziale circa la natura della presunzione di che trattasi, che trarrebbe origine da una “ipotesi di probabilità comportamentale” (quella della possibile distribuzione ai soci degli utili), anche in forza delle novità introdotte in tema dell’onere della prova dalla riforma della giustizia tributaria.

Il nuovo comma 5-bis dell’art. 7, D. Lgs. n. 546/92 statuisce infatti che “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”.

Tale disposizione ha, invero, profondamente modificato il riparto dell’onere probatorio nel processo tributario; se prima, come detto, era il contribuente, quale soggetto promovente l’azione, ad essere onerato di dimostrare il fondamento del proprio diritto, in applicazione del dettato codicistico di cui all’art. 2697 c.c., a seguito della novella, spetta, invece, all’Amministrazione finanziaria di fornire la prova dei fatti costitutivi della pretesa tributaria.

Applicando questa regola al caso di specie e superando il consolidato orientamento della Suprema Corte in tema di presunzione di distribuzione degli utili nelle compagini sociali a ristretta base partecipativa, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Reggio Emilia ha concluso affermando che l’Agenzia non avesse fornito alcuna prova “di come: la Società si fosse procurata la provvista per distribuire ai soci il maggior reddito accertato e di come un tale ammontare di maggior reddito fosse, poi, stato girato al ricorrente (bonifici bancari, contanti o altra modalità), trattandosi di una cifra senz’altro rilevante”.

Il mancato adempimento dell’onere probatorio, oggi imposto normativamente sull’Amministrazione finanziaria, ha quindi indotto la Corte ad accogliere il ricorso del contribuente e ad annullare l’avviso di accertamento.

Verso una maggiore responsabilizzazione dell’Amministrazione finanziaria e dei giudici tributari.

La sentenza in commento, oltre a palesarsi meritevole di attenzione perché supera un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, appare condivisibile nelle sue conclusioni poiché fa corretta applicazione del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, che assume una portata fortemente innovativa nel processo tributario.

In effetti, la disposizione introdotta dalla L. n. 130/2022, avendo natura processuale, può trovare applicazione, così come evidenziato dalla stessa Corte di Giustizia tributaria di Reggio Emilia, in tutti i processi pendenti, in ogni stato e grado, alla data del 16 settembre 2022, giorno in cui la legge è entrata in vigore. Da questo punto di vista, corretta è, quindi, la decisione dei giudici di risolvere in tal modo una controversia incardinata prima del 16 settembre 2022, ma comunque ancora pendente al momento dell’entrata in vigore della L. n. 130/2022.

Così facendo, è stata data applicazione alla nuova regola in tema di ripartizione dell’onere della prova nel processo tributario che, fatta eccezione per le liti da rimborso, oggi impone all’Ufficio di dimostrare in giudizio “in modo circostanziato e puntuale” tutti gli elementi in fatto a fondamento della pretesa impositiva e delle sanzioni irrogate con l’atto oggetto di impugnazione.

Il mancato corretto adempimento dell’onere probatorio comporta espresse conseguenze sulla validità dell’atto amministrativo. Difatti, la norma impone di annullare l’atto impositivo nei casi in cui la prova offerta processualmente dall’Ufficio manchi del tutto ovvero sia contraddittoria o insufficiente a fondare oltre ogni ragionevole dubbio la pretesa tributaria.

A tal riguardo, è bene precisare che un’adeguata e corretta motivazione dell’atto di accertamento non integra l’adempimento all’onere probatorio in sede processuale. In effetti, con la prima, posta a garanzia del contribuente, l’ente impositore esplica tutto l’iter procedimentale compiuto per giungere all’adozione dell’atto amministrativo, mentre con il secondo, posto anche a garanzia del giusto processo, esso è chiamato ad illustrare al giudice il fondamento sostanziale sul quale si basa quella pretesa impositiva. Trattasi, in altri termini, di obblighi che attengono a momenti diversi: uno di formazione della pretesa e l’altro dell’eventuale sede processuale ove il soggetto pubblico creditore, a seguito di specifica contestazione, è chiamato a dimostrare la legittimità della propria pretesa.

In conclusione, alla luce della nuova disposizione in tema di riparto dell’onere della prova nel processo, così come applicata dalla Corte di Giustizia tributaria di primo grado di Reggio Emilia nella sentenza n. 72/2023, è possibile evidenziare che la novella responsabilizza i giudici tributari; questi ultimi sono, infatti, oggi espressamente chiamati ad assumere maggior rigore nella valutazione delle prove allegate dall’Amministrazione su cui la pretesa tributaria si fonda ed anche a manifestare maggiore “coraggio” nell’annullare la pretesa tributaria, spesso di rilevante valore economico, quando la prova fornita si priva dei crismi sanciti dal comma 5-bis (mancanza o contraddittorietà della prova, inidoneità a dimostrare in modo circostanziato e puntuale le ragioni oggettive a fondamento dell’obbligazione tributaria).

La novella introdotta dalla L. n. 130/2022 responsabilizza, però, anche l’Amministrazione finanziaria perché quest’ultima dovrà essere attenta, sin dalla fase istruttoria procedimentale e prima di emettere l’atto impositivo, ad individuare gli elementi di prova che potranno essere in grado di superare il vaglio del giudice nella eventuale fase processuale. Da questo punto di vista, la norma sembra esplicare in definitiva effetti sulla fase amministrativa, sul buon operato dell’Agenzia fiscale e su un non marginale effetto deflattivo del processo tributario.

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